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Campi di internamento fascisti per gli ebrei PDF Stampa E-mail

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Carlo Spartaco Capogreco, I campi di concentramento fascisti per gli ebrei (1940-1943), Storia Contemporanea, Anno XXII, Agosto 1991, Il Mulino Editore

Tutte le nazioni, in tempo di guerra controllano i cittadini dei paesi nemici presenti sul proprio territorio e, talvolta, anche determinate categorie dei propri (avversari politici, sospetti di spionaggio, ecc.), attraverso la pratica dell’internamento civile che, pur non essendo regolata da particolari accordi internazionali, si attiene generalmente alla convenzione sul trattamento dei prigionieri di guerra, siglata a Ginevra nel 1929.

L’allontanamento dall’intera zona di guerra e conseguente inoltro nell’interno dello Stato, in una località militarmente non importante, dove sia facile esercitare la sorveglianza e precludere il mantenimento di relazioni dannose con l’ambiente originario, in Italia venne praticato per la prima volta durante la prima guerra mondiale, nei confronti dei sudditi austroungarici (internati in Sardegna) e degli schedati dalla polizia per motivi politici o perché sospetti di spionaggio a favore del nemico. In realtà, non si trattava, allora, di una costrizione in campi di concentramento, ma soltanto l’obbligo di soggiornare in determinate località: un’isola, per i più pericolosi; per gli altri anche una grande città, purché lontana dalle zone di guerra.

Col nazismo l’internamento acquistò il significato sinistro che la storia gli ha ormai conferito, ed il LAGER (campo di concentramento) divenne sinonimo totale violazione dei diritti umani e luogo di sterminio pianificato (campo sterminio o campo di morte).

L’internamento tedesco, che certamente – checché ne dicano gli storici revisionisti – è stato un “unicum” incomparabile, con le mostruose connotazioni che lo hanno caratterizzato, ha probabilmente determinato un fenomeno di rimozione dell’internamento “tout court”, che spiegherebbe come mai, soltanto pochissimi anni fa, non esistessero ancora degli studi sull’internamento fascista, quando invece gli altri aspetti dell’apparato repressivo del regime (confino politico, Tribunale speciale, ecc.), erano stati ampiamente scandagliati già da decenni. Anche gli storici, evidentemente, di fronte alla tragedia dei LAGER, hanno ritenuto di poco conto (o, quantomeno, di non primaria importanza) l’approfondimento delle condizioni di vita nei campi di concentramento fascisti.

Eppure, quando la ricerca si è avviata, i risultati sono stati tutt’altro che di poco conto, soprattutto per quanto riguarda l’internamento degli slavi, eseguito in grande stile dalle autorità civili e militari italiane dopo l’occupazione della Jugoslavia, nell’Aprile del 1941. Uomini e donne di ogni età (cittadini jugoslavi o allogeni della Venezia Giulia) vennero deportati ed internati in massa per ridurre drasticamente l’appoggio popolare al movimento partigiano jugoslavo. Strappati ai loro affetti ed alle loro case, essi subivano il sequestro dei loro beni e venivano sottoposti alla violenza preventiva e punitiva dello stato fascista. Col procedere della guerra l’internamento interessò un numero sempre più alto di persone ed in alcuni campi la mortalità per fame e per stenti superò percentualmente quella che si ebbe nei LAGER nazisti non di sterminio.

L’INTERNAMENTO FASCISTA

Il piano di mobilitazione generale da adottarsi in Italia in caso di guerra, era stato approvato con la legge n. 969 dell’8 Giugno 1925 ed integrato da ulteriori norme sulla disciplina di guerra emanate nel 1931. La mobilitazione civile, in particolare, prevedeva la ristrutturazione in chiave bellica di tutte le attività nazionali e conferiva al governo poteri ampi e straordinari.

Il Testo unico delle leggi di guerra e di neutralità, approvato dal regio decreto 8 Luglio 1928 n 1415, dava facoltà al Ministero dell’interno, con estensione anche ai prefetti, di “disporre l’internamento dei sudditi nemici atti a portare le armi o che comunque potessero svolgere attività dannosa per lo Stato” e demandava ad un apposito decreto del Duce le modalità di trattamento degli internati.

Va ricordato, inoltre, che dal 1929, due anni dopo l’entrata in vigore del Testo delle Leggi di Pubblica sicurezza, era stato istituito presso le prefetture un servizio schedario, con i nomi delle persone “da arrestare in determinate contingenze” poiché “sospette in linea politica”, facente capo al Casellario politico centrale, un archivio creato nel 1896 per coordinare i servizi di vigilanza sui sovversivi.

Il lavoro preparatorio per l’individuazione dei provvedimenti da adottare, in caso di mobilitazione, nei confronti degli “agenti accertati o sospetti di spionaggio”, dei “provocatori a servizio di altre nazioni” o “capaci di esercitare propaganda anti-italiana o comunque arrecare danno alle forze armate” (comunisti, anar- chici, sovversivi…), venne avviato nel 1930 dal Ministero della Guerra. Nel 1935 esso portò alla predisposizione dei provvedimenti da adottare – caso per caso ed al momento voluto – nei confronti delle persone schedate: l’arresto, l’internamento e talora, per gli stranieri, l’espulsione.

In quegli stessi anni la direzione generale di Pubblica sicurezza cominciò a redigere gli elenchi delle persone internate in concomitanza con lo scoppio della guerra e ad individuare i luoghi idonei per la dislocazione dei campi di concentramento, la cui organizzazione rientrava tra le competenze del Ministero dell’Interno. Il principio seguito nella scelta fu quello di utilizzare preferibilmente edifici già esistenti, o di proprietà demaniale o da prendere in affitto. I campi di concentramento italiani, perciò, solo in pochissimi casi, come si vedrà, sarebbero stati dei “campi” nel senso corrente del termine. Piuttosto che in baracche, gli internati venivano in genere “concentrati” in ville, castelli, fattorie, ex conventi, scuole, cinematografi, ecc., la cui individuazione avveniva attraverso una fitta corrispondenza tra la direzione generale della Pubblica sicurezza, i questori ed i prefetti. Con lo stesso criterio si individuavano anche le “località di internamento” nelle quali inviare a domicilio obbligato gli internanti non destinati ai campi di concentramento.

La ricerca di sedi idonee per l’internamento sarebbe durata sino alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia quando, in una circolare telegrafica inviata alle prefetture il 1 Giugno 1940, il Ministero dell’interno sintetizzò e ribadì tutte le norme predisposte negli anni precedenti assieme al Ministero della Guerra.

Appena dichiarato lo stato di guerra si leggeva, tra l’altro, nella circolare dovranno essere arrestate e tradotte in carcere le persone pericolose sia italiane che straniere di qualsiasi razza, capaci di turbare l’ordine pubblico e commettere sabotaggi o attentati, nonché le persone italiane o straniere segnalate dai centri di controspionaggio per l’immediato arresto.

L’8 Giugno 1940, a soli due giorni dall’entrata in guerra dell’Italia, un’altra circolare, la n. 442/12267, emanò le “prescrizioni per i campi di concentramento e le località di confino” dando così uno degli ultimi ritocchi alla macchina dell’internamento ormai pronta ad entrare in funzione.

GLI INTERNATI

Per coordinare amministrativamente l’internamento fu costituito, nell’ambito della Direzione Generale di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno, un apposito “Ufficio internati” comprendente due sezioni separate: una per l’internamento degli italiani, l’altra degli stranieri. Quest’ultima sezione, occupandosi anche degli agenti sospetti o accertati di spionaggio, si manteneva in stretto contatto con i servizi d’informazione delle varie armi.

Gli elenchi dei sovversivi italiani “da arrestare in determinate contingenze”, come visite di gerarchi, manifestazioni patriottiche, momenti di particolare tensione sociale e, naturalmente, in caso di guerra, predisposti sulla base degli schedari delle prefetture, comprendevano cinque categorie di persone. (Nota: a) persone pericolosissime; b) persone pericolose perché capaci di turbare il tranquillo svolgimento delle cerimonie; c) persone pericolose in caso di turbamento dell’ordine pubblico; d) squilibrati mentali; e) persone pericolose per delitti comuni Cfr. G. Tosatti, Gli Internati Civili in Italia nella Documentazione dell’Archivio Centrale dello Stato, in Una Storia di Tutti, cit., pag. 38). Si trattava, per la gran parte, di antifascisti già condannati dal Tribunale speciale, di ex confinati ed ammoniti o di militanti dei partiti dell’Italia prefascista che avevano svolto attività politica e sindacale nel primo dopoguerra; per molti di loro l’internamento sarebbe scattato con estrema diversificazione, da provincia a provincia.

E’ evidente che, nonostante per molte delle persone incluse in una delle cinque categorie le motivazioni fossero tali da prevedere l’invio al confino politico, durante la guerra, il regime preferì far ricorso all’internamento, essendo questa procedura molto più rapida e sbrigativa. Inoltre, molti antifascisti che al momento della dichiarazione di guerra si trovavano confinati o carcerati, invece di essere liberati allo scadere della pena, videro trasformarsi il proprio “status” in quello di internati, restando tale fino alla caduta del fascismo.

Un numero considerevole di internati italiani fu sempre rappresentato da abitanti di origine slava della Venezia Giulia. Con l’occupazione della Jugoslavia, poi, e l’annessione all’Italia di vasti territori di quella nazione, gli abitanti – considerati cittadini italiani per diritto di annessione furono sottoposti, come tali, all’istituto dell’internamento. Ma con l’avanzare della guerra e l’affermarsi della resistenza anti-italiana, le deportazioni e gli internamenti, divenuti, contrariamente alla legge, prerogativa delle autorità militari di occupazione, raggiunsero inauditi livelli numerici e di violenza.

Per quanto riguarda l’internamento degli stranieri presenti in Italia, si è già detto che il regio decreto 8 Luglio 1938 n. 1415 dava facoltà al Ministero dell’interno di disporre “l’internamento dei sudditi nemici atti a portare le armi o che comunque potessero svolgere attività dannosa per lo Stato”. Al momento dell’entrata della Nazione in guerra, di fatto, si decise di internare per via amministrativa i “sudditi nemici pericolosi” di nazionalità inglese, francese e greca, mentre il previsto “decreto del Duce” sul trattamento dei sudditi internati sarebbe stato emanato soltanto il 14 Settembre 1940.

L’INTERNAMENTO DEGLI EBREI

Nel maggio 1940 due circolari telegrafiche del Ministero dell’Interno invitarono le Prefetture a far pervenire “gli elenchi degli ebrei italiani da internare”. L’elemento “razza”, però, non costituiva condizione sufficiente per il loro internamento: gli ebrei italiani, alla stregua degli altri cittadini, venivano colpiti dal provvedimento solo se ritenuti pericolosi per motivi politici e sociali. Questo principio, a parte casi molto isolati, sarebbe stato rispettato e gli ebrei, in effetti, sarebbero stati internati solo se appartenenti – o sospettati di appartenere – alle file dell’antifascismo.

Gli ebrei stranieri costituivano per la legge una categoria distinta tra le altre persone da internare. Del resto l’internamento degli stranieri era ufficialmente motivato da parte dell’Italia dal desiderio di garantire la propria sicurezza interna e quella militare, così come avveniva in Gran Bretagna, in Francia e in tutti gli altri stati belligeranti sin dall’inizio del conflitto. In quest’ottica l’internamento avrebbe dovuto colpire solo gli ebrei stranieri di cittadinanza nemica, come, ad esempio, quelli polacchi residenti in Italia, e non certo quelli cittadini dei paesi dell’Asse o di paesi neutrali. Ma così non fu e l’internamento, che di per sé non aveva alcun rapporto con la politica di persecuzione razziale, ne divenne, nei fatti, parte importante.

Prima di entrare nei dettagli dell’internamento degli ebrei stranieri, è bene ricordare brevemente la loro condizione in Italia, soprattutto dopo che, nel 1938, il fascismo intraprese la scelta antisemita.

L’ingresso ed il soggiorno in Italia degli ebrei provenienti da paesi dove era in vigore la discriminazione razziale, erano stati per lungo tempo consentiti da Mussolini. Persino dopo l’ascesa al potere del nazismo, quando col repentino inizio della persecuzione molti ebrei cominciarono ad abbandonare la Germania, tale situazione venne mantenuta”a condizione che non si trattasse di persone che avessero attivamente operato in partiti politici contrari al fascismo” ed ostentata dal duce quale dimostrazione della “universalità di Roma” e della propria “superiorità culturale” nei confronti di Hitler che, invece, perseguitava gli ebrei.

Con l’inasprirsi della persecuzione nazista e l’estendersi della legislazione razziale di Norimberga ai paesi caduti sotto il giogo del regime hitleriano, l’emigrazione ebraica verso l’Italia proseguì sempre più numerosa. Ma la situazione dei profughi, sino ad allora abbastanza buona, cambiò improvvisamente nell’autunno del 1938, quando anche in Italia venne emanata la legislazione razziale. Il decreto legge 7 Settembre 1938 n. 1381 (Provvedimenti nei confronti di ebrei stranieri) e quello n. 1728 del 17 Novembre successivo (Provvedimenti per la difesa della razza italiana), stabilivano che tutti gli ebrei stranieri entrati nel regno posteriormente al 1 Gennaio 1919 dovessero lasciare il paese entro sei mesi, pena l’espulsione. Al tempo stesso venivano revocate tutte le cittadinanze italiane concesse ad ebrei dopo il 1 Gennaio 1919.

Trascorsi i sei mesi concessi dalla legge, essendo tutt’altro che facile trovare una nazione disposta ad accoglierli, non tutti gli ebrei, in effetti, erano riusciti a lasciare l’Italia, ed altri addirittura vi erano ancora giunti. Tuttavia la minacciata espulsione non venne attuata, seppure il decreto del 7 Settembre restasse giuridicamente in vigore.

Le prime tracce dell’inclusione degli ebrei stranieri, tra coloro che dovevano essere internati, si trovano in un telegramma che il Ministro dell’interno inviò ai prefetti il 20 Maggio 1940. Pochi giorni dopo, lo stesso Ministero, rivolgendosi al Dicastero degli Affari Esteri, affermava che “gli ebrei stranieri residenti in Italia o precisamente quelli che vi sono venuti con pretesti, inganno o mezzi illeciti” dovessero essere considerati “apparte- nenti a stati nemici”. Il suggerimento venne accolto dal Ministero degli Esteri, il quale però avanzò l’opportunità di escludere dal provvedimento gli ebrei cittadini di stati neutrali.

Raggiunto l’accordo sulle “caratteristiche” degli ebrei da internare, il 15 Giugno 1940 il capo della polizia emanò l’ordine di arresto per gli ebrei stranieri “appartenenti a Stati che fanno politica razziale” e per gli apolidi compresi tra i diciotto e i sessanta anni tutti etichettati come “elementi indesiderabili imbevuti di odio contro i regimi totalitari”. Alle donne e ai bam- bini veniva intimato di recarsi, entro un lasso di tempo stabilito, alla prefettura della provincia destinata al loro “internamento libero”, che consisteva nel domicilio coatto, in appositi comuni. Una successiva circolare del Ministero dell’interno precisava che non erano da arrestare gli ebrei stranieri immigrati prima del 1919; particolare questo che confermava esplicitamente che gli ebrei che si intendeva internare erano quelli stessi che erano stati colpiti dal decreto di espulsione del 1938.

La retata degli arresti venne messa in atto dalla polizia e dai carabinieri delle grandi città, dove in genere gli ebrei stra- nieri risiedevano. Gli agenti, dopo aver notificato il provvedimento – che il più delle volte non era neppure scritto, ma comunicato a voce – conducevano i malcapitati nelle guardine delle varie questure e quindi, dopo ore ed ore di attesa trascorse senza cibo, li avviavano nelle carceri. Nelle celle gli ebrei vivevano in condizioni igieniche terribili, ma il loro tor- mento maggiore era il timore di vedersi riconsegnare alle autorità naziste. Dopo una ventina di giorni trascorsi in carcere, trattati come delinquenti comuni, essi venivano condotti alle stazioni ferroviarie per essere inviati nei “campi di concen- tramento” o nei comuni appositamente individuati, dove l”‘internamento libero” equivaleva pressoché al confino di polizia.

I CAMPI Dl CONCENTRAMENTO PER EBREI (1940- 1943)

Dopo l’arresto, le persone da internare venivano inviate in “campi di concentramento” oppure in “località d’internamento”; i campi, a loro volta, erano localizzati sulla terraferma o su piccole isole già utilizzate per il confino politico. La scelta dell’una o dell’altra destinazione avveniva in base alla “pericolosità” dell’internato; nelle isole venivano inviati gli elementi ritenuti più pericolosi, in genere internati per ragioni politiche; nei campi di terraferma quelli di media peri- colosità e nelle località di internamento tutti gli altri.

La scelta del luogo da destinare a sede d’internamento era condizionata dal fatto che la zona non fosse stata dichiarata militarmente importante o non si trovasse nelle vicinanze di zone dichiarate tali. Proprio per questo motivo, inizialmente, gli internati non furono inviati nelle isole maggiori e nell’Italia settentrionale, ma nelle regioni centro-meridionali che, secondo una convinzione allora molto diffusa, sarebbero state scarsamente interessate dalla guerra. A favore di tale scelta, probabilmente, influivano anche altri motivi, quali l’impervietà dei luoghi, la scarsa concentrazione abitativa e la minore politicizzazione degli abitanti; gli stessi motivi, del resto, che avevano indotto il regime, già dal 1926, ad inviare nelle zone povere del centro-sud anche i confinati politici.

Le province destinate ad accogliere internati vennero ripartite in cinque zone giurisdizionali, ciascuna presieduta da un ispettore generale di Pubblica Sicurezza che effettuava visite periodiche di controllo e faceva da tramite tra il Ministero dell’Interno e la periferia.

L’aver privilegiato il centro-sud, con l’avvicinamento degli anglo-americani proprio alle regioni meridionali d’Italia, si sarebbe dimostrato un grave errore col procedere della guerra; pertanto il Ministero gradatamente cercò di porvi rimedio spostando da sud a nord prima le località e poi i campi d’internamento. Infatti, mentre nel 1940 le prime erano dislocate in 20 province del centro-sud, nel 1943 esse interessavano ben 28 province del settentrione, 18 del centro e soltanto 8 del meridione.

Dal 18 Giugno 1940 all’Agosto del ‘43 furono più di 50 i campi sottoposti alla giurisdizione del Ministero dell’interno. Negli anni 1941-42, numerosissimi campi di concentramento vennero aperti nel centro-nord d’Italia ma di essi in questa sede non si terrà conto, sia perché non internati ebrei ma quasi esclusivamente slavi, sia perché, pur essendo campi per civili, erano generalmente sottoposti alla giurisdizione delle autorità militari.

L’Abruzzo-Molise e le Marche, regioni particolarmente montagnose e con disagevoli vie di comunicazione, ospitavano sul proprio territorio quasi la metà dei campi; gli altri si trovavano in Toscana, Umbria, Lazio, Campania, Puglia, Lucania, Calabria e nelle piccole isole di Ustica, Lipari, Ponza, Ventotene e Tremiti. Gli unici due campi dell’Italia settentrionale (Montechiarugolo e Scipione) si trovavano in Emilia-Romagna. Solo Solofra, in provincia di Avellino, Vinchiaturo e Casacalenda, in provincia di Campobasso; Lanciano in provincia di Chieti, Pollenza e Treia (quest’ultimo poi trasferito a Petriolo) in provincia di Macerata, erano espressamente femminili. Per il resto si trattò sempre di campi maschili, tranne il caso di Ferramonti-Tarsia, il più grande, nel quale, dopo alcuni mesi, dall’apertura furono presenti sia uomini che donne e, dal secondo anno, interi nuclei familiari.

Le località di “internamento libero” furono alcune centinaia e ciascuna poteva accogliere un numero variabile di internati: da uno/due a diverse decine. Talora lo stesso comune ospitava sia un campo di concentramento che “internati liberi”: a Lanciano, ad esempio, oltre alle circa 80 straniere presenti nel locale campo femminile, vi era, come “internato libero”, lo scrittore ebreo Aldo Oberdorfer.

Secondo gli studi più recenti, nel Giugno 1940, al momento dell’entrata in guerra, in Italia erano presenti poco meno di 4.000 ebrei ed apolidi passibili del provvedimento di internamento. Si trattava di tedeschi, austriaci, polacchi, ceco- slovacchi ed apolidi (divenuti tali in seguito alla revoca della cittadinanza italiana) che, nell’estate del ‘40, costituirono nella quasi totalità il primo grosso contingente di internati ebraici nei campi di concentramento fascisti. Tra il 1941 ed il ‘42, sarebbe giunto il secondo contingente dalle zone ex-jugoslave appartenenti allo stato croato o annesse all’Italia, composto da circa 2.000 ebrei, prevalentemente slavi, e nel quale vanno inclusi anche i 500 naufraghi del “Pent-cho”, battello fluviale partito da Bratislava nel Maggio 1940 coll’improbabile proposito di rag- giungere la Palestina ed incagliatosi, dopo sei mesi, nei pressi di Rodi.

In Italia le località dell’internamento libero che accolsero ebrei furono oltre 200, mentre 40 furono i campi di concen- tramento, nei quali, generalmente, gli ebrei convivevano con altri internati. Nell’Ottobre 1940, su un totale di 2.412 ebrei stranieri internati in Italia, più di 700 si trovavano a Ferramonti, il più grande campo ad essi destinato. Nell’Agosto del 1943, a circa un mese dalla liberazione del campo, Ferramonti ospitava 1.604 internati ebrei e 412 non ebrei. Esso era stato uno dei pochi costruiti “ad hoc”, con una struttura in baraccamenti e recinzioni in filo spinato, mentre quasi tutti gli altri campi erano in realtà normali edifici requisiti all’uopo e più o meno adattati ad accogliere internati.

Era questo il caso dei campi di Campagna (in provincia di Salerno), dove, in due ex convitti, vi erano circa 250 ebrei; Civitella del Tronto (in provincia di Teramo), dove gli ebrei erano più di 100, alloggiati in tre edifici; Agnone (in provincia di Campobasso), dove circa 100 ebrei alloggiavano in un ex convento di proprietà del locale episcopato; Isola di Gran Sasso (Teramo), situato nella foresteria di S.Gabriele; Tossicia (Teramo), situato in due case private; Notaresco (Teramo), situato in due case private; Casoli (Chieti), situato in un vecchio cinema ed in una scuola; Lanciano (Chieti), situato in una villa di campagna; Isernia (Campobasso), situato in un vecchio convento; Urbisaglia (Macerata), con una media di 250 internati ebrei alloggiati in una villa di campagna; Manfredonia (Foggia), situato in un locale costruito per essere adibito a mattatoio; Bagno a Ripoli (Firenze), situato in una villa di campagna; Montechiarugolo (Parma), situato in un castello medioevale.

Secondo i dati forniti periodicamente al Ministero dell’interno dalle varie prefetture, alla fine del 1942 erano internati in Italia 5.636 ebrei stranieri ed apolidi. Dei 2.139 reclusi in campi di concentramento, 697 erano tedeschi, 298 polacchi, 337 jugoslavi, 194 inglesi, 37 croati ed il resto di altre nazionalità. Dei 3.497 che invece risiedevano nelle località d’internamento, 807 erano tedeschi, 999 jugoslavi, 486 croati, 427 polacchi, 53 inglesi, 32 greci e gli altri di altre nazionalità o apolidi. Un migliaio di ebrei stranieri – prevalentemente donne e bambini – continuarono a risiedere presso le proprie abitazioni e non subirono l’internamento per tutti gli anni in cui esso restò in vigore.

Per quanto riguarda la direzione dei campi, essa era affidata ad un commissario o maresciallo di Pubblica sicurezza o al podestà del luogo, coadiuvati da agenti di Pubblica Sicurezza, da carabinieri oppure da militi fascisti. A Ferramonti erano presenti sia i militi, che svolgevano la guardia esterna al campo, sia gli agenti, che all’interno svolgevano il servizio di polizia; a Campagna e ad Urbisaglia, oltre ai militi erano presenti anche i carabinieri .

Il ritmo delle giornate nei campi, come in ogni luogo di detenzione, era scandito da quanto previsto nel regolamento: gli appelli, il pranzo, la cena, l’oscuramento serale, ecc. Gli “internati liberi”, invece, avevano l’obbligo di presentarsi due volte al giorno ai locali carabinieri; essi inoltre non potevano oltrepassare il perimetro loro assegnato nell’ambito del territorio comunale e non potevano avere rapporti, se non quelli minimi indispensabili, con la popolazione locale. Le “prescrizioni”, previste per tutti gli internati dal decreto di internamento (molto simili a quelle in vigore nelle colonie di confino) erano numerosissime: era proibito occuparsi di politica, leggere senza autorizzazione pubblicazioni estere, possedere apparecchi radio, ecc. La corrispondenza con i familiari era sottoposta a censura, mentre per scrivere ad altre persone occorreva una particolare autorizzazione.

Non era previsto, invece, l’obbligo di lavorare e, a chi dichiarava di non avere mezzi per il proprio mantenimento, il governo versava un sussidio che, per gli internati nei comuni, era integrato da una “indennità di alloggio”. Il sussidio governativo (inizialmente di Lire 6,50 al giorno), nonostante i successivi aumenti che cercavano di compensare la svalutazione della lira, non consentiva di far fronte al reale costo della vita, ma era appena sufficiente a garantire una alimentazione di sopravvivenza. Nei campi più grandi gli internati, versando buona parte del sussidio, organizzarono delle mense comuni riuscendo così, con minore spesa, ad alimentarsi discretamente.

A Ferramonti gli ebrei, autotassandosi, costituirono pure un “Comitato di assistenza” che forniva aiuto ai più bisognosi. Frequenti aiuti giunsero nei vari campi da parte della organizzazione ebraica DELASEM e dalla “Mensa dei Bambini” di Milano, creata e diretta con grande abnegazione da Israele Kalk. Dall’estate del 1942, a tutti gli internati che lo avessero voluto fu consentito di lavorare per integrare il proprio scarno sussidio; restando precluse, ovviamente, le attività professionali – che, del resto, per gli ebrei erano interdette dalle leggi razziali italiane – i lavori disponibili furono quelli agricoli e manuali in genere.

Nonostante questa apertura – molto apprezzata, poiché permetteva di uscire dai campi, evitare l’ozio ed avere maggiori rapporti con le popolazioni -, proprio dalla metà del 1942, l’inasprirsi della guerra impose nuove restrizioni ed aggravò il già difficile problema degli approvvigionamenti. La condizione materiale degli internati peggiorò notevolmente e la loro sopravvivenza si basò essenzialmente sul mercato nero , spesso tollerato dalla direzione dei campi e quasi sempre alimentato dalla milizia fascista.

Il 17 febbraio 1943, Salvatore Li Voti, ispettore generale della 5a zona d’internamento, riferiva la Ministero che le condizioni alimentari della colonia di confino di Ventotene e nel campo di concentramento di Ponza erano molto critiche.

“Si verificano casi di denutrizione, e talvolta – egli affermava – avviene che qualcuno cerca tra i rifiuti di che sfamarsi, altri se ne stanno sdraiati a letto per risparmiare le energie fisiche ed altri preferiscono commettere infrazioni per essere rinchiusi in carcere, dove trovano una maggiore razione di pane… Quanto esposto per Ventotene e Ponza – concludeva l’ispettore – ripeto anche per la colonia di Ustica e pel campo di concentramento di Ferramonti, nella quale ultima località le condizioni alimentari si sono in questi ultimi tempi rese molto precarie per la mancanza di molti generi razionati…”.

La malnutrizione causò molte malattie tra gli internati, ma al pari di loro anche la popolazione civile in quegli anni era sottoposta a difficili prove per garantirsi il pane quotidiano. Ciò spiega come mai la mortalità nei campi di concentramento non superasse quella della popolazione italiana. Solo nei campi per slavi amministrati da autorità militari le condizioni igieniche e la mancanza di cibo erano tali da condurre a morte centinaia di internati.

A Ferramonti-Tarsia, in tre anni, morirono per malattia 37 persone; particolarmente frequenti erano la malaria, la tubercolosi e le malattie gastrointestinali e parassitarie.

Le condizioni igieniche – come metteva in evidenza lo stesso ispettore generale – erano preoccupanti, poiché il campo, nonostante il parere contrario del medico provinciale di Cosenza, era stato costruito in una zona paludosa e malarica, in beffa allo stesso decreto di internamento che voleva i campi situati in zone “non insalubri”. La sottoalimentazione, l’umidità, l’assenza o l’insufficienza del riscaldamento. le carenze igienico- sanitarie: tutto questo segnalavano le ispezioni della Croce Rossa Internazionale (e spesso come si è visto, gli stessi ispettori generali) per quasi tutti i campi da essa visitati.

A Ferramonti, ad Urbisaglia, a Campagna, a Manfredonia ed in altri campi furono consentite varie forme di amministrazione autonoma, oltre a quelle di cui si è già parlato. A Ferramonti, in particolare, si riunivano regolarmente tutte le settimane una “assemblea dei delegati delle baracche” (forse l’unica isola di democrazia dell’Italia di allora), che eleggeva al suo interno un rappresentante generale di tutti gli internati, il capo dei capi-baracca; sempre gestiti dagli internati funzionarono una scuola, un asilo, un ambulatorio medico ed inoltre si svilupparono varie attività artistiche, culturali e religiose, sia ebraiche che cristiane. Per le reperibilità del personale non sussistevano problemi poiché tra gli internati vi erano decine di medici, tre rabbini, illustri pittori e musicisti, numerosissimi insegnanti e studenti universitari.

L’internamento nei comuni permise, in genere, condizioni di vita migliori rispetto a quello nei campi, anche perché vivendo in stretto contatto con la gente del luogo, gli internati ebbero maggiori occasioni per accattivarsi la stima e l’appoggio popolari. La martellante propaganda antisemita promossa dal fascismo, infatti, non dava assolutamente buoni frutti in Italia. Al federale dell’Aquila che nel 1942 riferiva della crescente simpatia degli abitanti dei comuni abruzzesi per gli internati ebrei ed inglesi lo stesso Mussolini rispondeva:”Evidentemente le differenze razziali sono scarsamente sentite e le differenze politiche altrettanto. Si ha l’aria di considerare questi individui come poveri diavoli che non hanno nessuna colpa di essere nati ebrei, francesi, levantini. Ma sono pericolosi e bisogna fare il processo all’intenzione… evidentemente le autorità locali del Partito non hanno fatto la propaganda necessaria per dire che questa gente deve essere per lo meno evitata”.

Nei campi maggiori gli internati non potevano uscire all’esterno, se non per particolari motivi (visite mediche, acquisti particolari, ecc.) per i quali – ottenuta l’autorizzazione – venivano accompagnati da agenti o da carabinieri; nei campi più piccoli, invece, la situazione era diversa. Qui gli internati potevano allontanarsi e circolare all’interno di un certo perimetro loro consentito, situazione questa, che li accomunava agli “internati liberi”.

Dalla primavera del 1941 il Ministero dell’interno concesse la possibilità di trasferimento da un campo di concentramento ad un comune di “internamento libero” situato in province scelte dagli stessi internati. Molti di loro, nella speranza di trovare condizioni migliori, chiesero il trasferimento al nord compiendo così un fatale errore che, in molti casi, avrebbe segnato un tragico destino: dopo l’armistizio dell’8 Settembre 1943, infatti, l’Italia centro-settentrionale sarebbe rimasta a lungo sotto l’occupazione tedesca e gli ebrei catturati sarebbero stati deportati ad Auschwitz.

Già dal 1942, comunque, gli internati nei piccoli comuni videro aumentare considerevolmente i loro problemi, dovendo contendere i pochi alloggi disponibili con gli sfollati provenienti dalle città bombardate.

Il 25 Luglio 1943 la caduta di Mussolini suscitò tra gli internati grandi speranze sulla fine della guerra e sulla loro rapida liberazione, ma nell’immediato nulla sembrò cambiare. Solo il 10 Settembre, due giorni dopo l’annuncio dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, venne revocato il provvedimento d’internamento. Ma ora che l’Italia era divisa in due e per metà era occupata dai tedeschi, la sorte degli ebrei dipendeva da due fattori: la loro dislocazione geografica e la capacità di trovarsi un rifugio per sfuggire alla cattura dei nazisti.

Nel sud, dove erano situati i due campi maggiori di Ferramonti e Campagna, il repentino arrivo degli Alleati permise la salvezza degli ebrei: il campo di Ferramonti fu liberato dall’8 Armata inglese il 14 settembre 1943, anche se, in verità, già da alcuni giorni la gran parte degli internati aveva trovato rifugio tra la gente dei paesi e delle campagne vicine. Entro il mese di settembre circa 2.000 ebrei internati nei paesi e nei campi di concentramento dell’Italia meridionale si trovarono sotto la tutela delle truppe alleate .

Ben diversa fu la situazione nei del centro-nord: ad Urbisaglia, ad esempio, gran parte degli ebrei internati furono deportati dai tedeschi, con la fattiva collaborazione dei fascisti della Repubblica di Salò. Anche nell’Italia centrale e setten- trionale comunque molti ebrei già internati nei campi o nei comuni trovarono protezione e rifugio da parte del clero o delle popolazioni locali, mentre altri si unirono alle nascenti formazioni partigiane.

Il 30 Novembre 1943, l’istituto dell’internamento venne ripristinato dal fascismo di Salò, che costituì nuovi campi per rimpiazzare quelli del sud caduti in mano agli Alleati. Ad essere internati non erano più soltanto gli stranieri, ma tutti gli ebrei in quanto tali e l’internamento, ormai, costituiva solo una breve sosta sulla via di Auschwitz: 6.815 ebrei furono deportati dall’Italia tra il 1943 ed il 1945 e più di 2.000 di loro erano stranieri.

I campi di concentramento italiani per gli ebrei, come abbiamo visto, a parte il nome, non ebbero granché in comune con i campi nazisti. Come si legge in un recente studio dell’Associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti fonte certamente non sospetta di particolari indulgenze verso il regime mussoliniano – “sarebbe errato parlare di Lager nel fare la storia dei campi di concentramento fascisti; con tutto ciò che di negativo ed arbitrario possono aver rappresentato, essi furono unicamente dei campi di con- centramento”.

Ed un funzionario della DELASEM conclude un rapporto testimoniale sul campo di Ferramonti, dove egli stesso era stato internato, con una frase che non lascia margine agli equivoci: “ll trattamento è sempre stato umano e comprensivo”.

Le condizioni di vita di certo variarono molto da campo a campo, a seconda delle categorie di internati e del periodo temporale preso in considerazione, peggiorando dappertutto col passare degli anni; tuttavia il comportamento delle autorità civili preposte a dirigerli fu, quasi sempre, corretto e piuttosto tollerante.

Nei campi di concentramento italiani per ebrei, gli internati non vennero mai trattati con crudeltà, sadismo o violenza premeditata e le trasgressioni al regolamento vennero punite con il trasferimento nelle isole o con la cella di rigore, ma senza violenze sommarie.

“Gli internati devono essere trattati con umanità e sono protetti contro ogni offesa e violenza”/ recitava il decreto d’internamento che, generalmente, veniva rispettato .

Nella descrizione che ci dà lo scrittore Arthur Koestler delle condizioni di vita del campo francese di Le Vernet, in cui egli fu internato per sei mesi nel 1939, leggiamo: “Nella scala centigrada liberale il campo di Vernet era lo zero della ignominia; misurato in Dachau-Fahreneit era ancora 32 gradi sopra zero…”. Prendendo a prestito da Koestler il suo efficace paragone, non si sbaglia certo collocando i campi fascisti gestiti dal Ministero dell’lnterno in una posizione non bassa della “scala centigrada liberale”.

Ma, per la grande penuria, I’affollamento degli alloggiamenti e la privazione della libertà, la maggior parte degli internati visse la propria condizione tra molti disagi e sofferenze; soprattutto visse con la drammatica incertezza sul proprio futuro e su quello dei propri familiari lontani, rimasti in balia della persecuzione nazista.

“Nessuno veniva affamato, torturato, ucciso o maltrattato – ha scritto un ebreo apolide internato a Tortoreto – ma, pur tuttavia, eravamo privati della libertà… L’incertezza e l’inutilità della nostra situa- zione, la totale mancanza di quasiasi prospettiva, la noia di quell’esistenza, s/insinuavano giorno dopo giorno tra le pieghe dell’animo. Eravamo come sospesi nel nulla”.

E una internata del campo femminile di Lanciano, ebrea polacca:

“Siamo qui settantacinque, molte di noi fra la vita e la morte, in un vegetare pietoso, che nessuna misura umana dovrebbe sanzionare… Siamo state recluse senza processo, senza difesa, senza giudizio. Su molte di noi pende la buona vecchia spada di Damocle: la vendetta di Hitler se vince la guerra”.

Ancora un ebreo tedesco, internato a Casoli, così si esprimeva nel 1940, scrivendo al fratello in Sud America:

“Viviamo ora in un periodo critico, e non si può sapere se ne uscirò vivo… Io sono in buona salute e non posso lamentarmi. Se si potesse attendere qui la fine della guerra, sarebbe già una buona cosa, ma non si sa cosa possa ancora succedere. . . ” .

Se è vero che nei campi di concentramento fascisti per gli ebrei non venne offesa la dignità dell’uomo, è vero anche che proprio la dignità dell’uomo fu calpestata dalla stessa esistenza di campi che – come estrema conseguenza delle leggi razziste del 1938 – privarono della libertà migliaia di innocenti.

Ecco perché, anche senza considerare le violenze e le deportazioni del fascismo di Salò, il giudizio sull’internamento degli ebrei dal 1940 al ‘43, non può che essere negativo e senza attenuanti. Certamente, le testimonianze degli stranieri internati in Italia, e che sopravvissero così all’Olocausto, sono generalmente benevole: provenendo da paesi in cui gli ebrei vivevano in situazioni di grande inferiorità morale e civile ed avendo conosciuto in non pochi casi la deportazione nei campi di concentramento nazisti, essi compresero bene la differenza tra l’internamento di Ferramonti o di Campagna e quello del “Lager” del Reich. Ma occorre tenere conto anche di chi, purtroppo, non può più testimoniare, e cioè degli ebre internati che deportati dall’Italia tra il 1943 ed il 1945 finirono nei campi della morte

Il peso dell’ambiguità ha sinora gravato sul giudizio storico relativo all’internamento fascista. I campi di concentra- mento italiani per ebrei, infatt possono essere considerati sia “anticamera della libertà” che “anticamera della morte” senza che una definizione escluda l’altra.

Per gli ebrei di Ferramonti e degli altri luoghi del sud che nel 1943 furono liberati dagli Alleati, proprio l’internarnento in Italia rappresentò la via di accesso alla libertà; ma per coloro i quali, intemati al centro-nord o colà trasferiti dal sud, finirono nelle maglie dei nazistil esso costituì una vera anticamera della morte.

Per decenni la ricerca storica, trascurando la tematica dell’intemamento, non ha consentito l’uscita da questa ambiva- lenza. Ma oggi sappiamo con esattezza che prima della sua caduta Mussolini stava predisponendo, se non il rimpatrio nel Reich, quantomeno il trasferimento nei pressi della frontiera tedesca degli ebrei internati nel centro-sud.

Se ciò fosse successo, se la seduta del Gran Consiglio del 25 Luglio, e lo sbarco degli Alleati non avessero bloccato la realizzazione di quel progetto, gli ebrei internati in Italia si sarebbero visti ben presto consegnati ai nazisti, con le prevedibili conseguenze per la loro sorte.

Un telegramma per la fine dell’internamento del 10 settembre 1943

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 Nota del curatore Roberto Cruciani:

Ci siamo limitati a riportare il solo testo del bellissimo studio del Dott Carlo Spartaco Capogreco “I CAMPI Dl INTERNAMENTO FASCISTI PER GLI EBREI (1940-1943)” già di per se molto espressivo ed eloquente, trascurado quindi tutta la parte riguradante le NOTE (ben 90) ritenute altrettanto eloquenti e significative, oltre che per questione spazio, anche e principalmente per lasciare ai lettori la possibilità di ricorrere alla Rivista bimestrale LA STORIA CONTEMPORANEA – Anno XXII, Agosto 1991′ Edizioni IL MULINO per un maggiore approfondimento dell’argomento di che trattasi.

 
Engles Profili 2010 - Pubblicazione a cura di Lykonos