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La Marcia su Roma PDF Stampa E-mail

www.corrierecaraibi.com/IT_cronaca_081028_La-Marcia-su-Roma-2.htm

la-marcia-1In marcia

Quattro giorni prima della marcia, il 24 ottobre, a Napoli si tenne una grandiosa adunata di camicie nere, raduno che doveva servire da prova generale.

Confluirono nel capoluogo partenopeo 60.000 fascisti, che sfilarono per ore nella città.

Mussolini tenne due discorsi, uno al teatro San Carlo, diretto al ceto borghese, ed uno in piazza San Carlo ai suoi uomini. Il capo dei fascisti si espresse abilmente evitando di far trasparire segnali di allarme, ma al contempo rassodando i crescenti consensi sia della popolazione che dei simpatizzanti.

La stessa sera, all’Hotel Vesuvio, si riunì il Consiglio nazionale del partito che stabilì le direttive di dettaglio per la marcia. La mattina dopo Bianchi avrebbe lanciato ai suoi uomini il segnale convenuto: “Insomma, fascisti, a Napoli piove, che ci state a fare?”, mentre Mussolini sarebbe prudentemente andato ad attendere a Milano gli sviluppi successivi.

A condurre la marcia sarebbe stato un quadrumvirato composto da Italo Balbo (uno dei ras più famosi), Emilio De Bono (comandante della Milizia), Cesare Maria De Vecchi (un generale non sgradito al Quirinale) e Michele Bianchi (segretario del partito fedelissimo di Mussolini); il quadrumvirato avrebbe dichiarato l’assunzione di pieni poteri a Perugia che avrebbe assunto i poteri nella notte tra il 26 e il 27 ottobre. Dino Grandi, di rientro da una missione a Ginevra, era stato nominato capo di stato maggiore del quadrumvirato.

Truppe fasciste avrebbero poi dovuto occupare uffici pubblici, le stazioni, le centrali telegrafiche e quelle telefoniche.

Le squadre sarebbero confluite a Foligno, Tivoli, Monterotondo e Santa Marinella per poi entrare nella capitale. Si raccolsero – si stima – circa 25-30.000 fascisti, a fronte dei 28.400 soldati a difesa della capitale.

Facta era rassicurato dagli avvenimenti e dai discorsi tenuti a Napoli, nonché dal fatto che il raduno si era chiuso senza scontri, violenze ed altre degenerazioni. Il 26, però, Antonio Salandra (che si era incontrato con Mussolini quando questi andava a Napoli il 23, e che manteneva i contatti con De Vecchi, Ciano e Grandi) gli riferì che la marcia su Roma stava per partire e che se ne volevano le dimissioni. Facta in realtà non gli credette; la contrapposizione politica fra Facta e Salandra non rendeva l’imbasciata del secondo così influente sul primo, che si limitò ad indire un consiglio dei ministri nel quale cercò di riprendersi le deleghe affidate ai ministri, onde poter disporre di “valori” negoziabili, con Mussolini o con altri. Del resto, in seno al governo, bruciava la questione della posizione di Riccio, fedelissimo di Salandra, che si trovava in condizione di provocare la crisi di governo. Assenti Giovanni Amendola e Paolino Taddei, gli altri ministri accettarono di presentare a Facta le dimissioni e di accettare il loro eventuale avvicendamento con nuovi ministri fascisti.

Il 27 ottobre, Bianchi e De Vecchi vennero a contrasto, il primo mandò addirittura una lettera a Mussolini in cui definiva l’altro disertore. La “colpa” dei De Vecchi sarebbe consistita nel prosieguo – a fianco di Grandi – dei negoziati politici con Salandra, che avrebbe ambito ad un incontro diretto con Mussolini che ripetuitamente chiese invano.

Intanto a Cremona, a Pisa e a Firenze erano già in azione gli squadristi, che prendevano non pacifico possesso di alcuni edifici pubblici. Alle prime notizie, Facta, telegrafò al re Vittorio Emanuele III a San Rossore invitandolo a rientrare, cosa che il sovrano fece nella serata; andandolo a ricevere alla stazione, Facta gli suggerì di applicare lo stato d’assedio, ma il re non accettò (riferì Marcello Soleri) rifiutandosi di deliberare sotto la pressione dei moschetti fascisti.

La notte tra il 27 e il 28 il presidente del consiglio fu svegliato per essere informato che le colonne fasciste erano partite verso Roma sui treni che avevano assaltato.

marcia_su_roma1O Roma, o morte

La mattina del 28, alle 6 del mattino, si riunì al Viminale (allora sede della presidenza del consiglio) il consiglio dei ministri che decise di proclamare lo stato di assedio. Il ministro dell’interno Taddei stilò un proclama sulla falsariga di quello che Luigi Pelloux aveva stilato nel 1898, e lo diede immediatamente alle stampe, diffondendolo alle prefetture.

Verso le 8.30, Facta si recò al Quirinale per la ratifica del proclama, ma – con sorpresa del primo ministro – il re si rifiutò: «Queste decisioni spettano soltanto a me. Dopo lo stato d’assedio non c’è che la guerra civile. Ora bisogna che uno di noi due si sacrifichi». Facta rispose “Vostra Maestà non ha bisogno di dire a chi tocca” e si dimise[7].

Le ragioni del regal diniego alla proposta dello stato d’assedio, con la quale avrebbe di fatto messo fuori legge i fascisti, non sono state dichiarate dal sovrano e sono oggetto di varia interpretazione. Si è vociferato di accordi segreti tra Mussolini e la Corona (ipotesi che però non gode di gran credito), altre voci sospettano che la presenza del filofascista Duca d’Aosta a Perugia (disobbedendo all’ordine del sovrano di restare a Torino) l’avesse portato a temere una crisi dinastica.

Sicuramente il re passò la notte sveglio consultandosi con varie personalità, ma non con Badoglio né con Pugliese, il comandante del presidio di Roma perché li sapeva entrambi decisi a usare la forza. Invece, Armando Diaz, l’ammiraglio Thaon di Revel ed altri influenti ufficiali, avevano avanzato dubbi sulla “tenuta” morale dell’esecito, sconsigliando di sperimentarla in questa occasione poiché le truppe avrebbero potuto far causa comune con i fascisti.

Alle 9.30 un pallido Facta tornò al Viminale per annullare lo stato d’assedio e per chiamare Giovanni Giolitti in suo aiuto, ma questi non avrebbe potuto arrivare a soccorrerlo a causa delle linee ferroviarie interrotte dallo stesso Facta a due chilometri dalla capitale e, il giorno dopo il suo ottantesimo compleanno, non pareva nemmeno tanto disposto a correre.[8]. Alle 11.30 Facta formalizzò le sue dimissioni ed il re procedette come d’ordinario con le consultazioni.

Mussolini intanto restava a Milano, dove veniva costantemente informato sulla situazione romana; i dettagli dal Viminale gli venivano da Vincenzo Riccio, che tramite Salandra li faceva arrivare ai notabili fascisti (cui si era aggiunto Luigi Federzoni). Sapeva che De Vecchi e Grandi cercavano qualche accordo non coerente con il piano generale, ed anche se più tardi li avrebbe accusati d’aver tradito la rivoluzione (Processo di Verona), al momento non li sconfessò pensando che la trattativa avrebbe potuto costituire una buona chance di ripiego nel caso in cui le sue squadre si fossero trovate costrette a smobilitare per l’intervento dell’esercito. Mussolini infatti sapeva bene che i suoi uomini erano sì una minaccia, ma non credeva alla loro forza militare.

Una voce circolata successivamente asseriva che Facta avrebbe in realtà disposto per lo stato d’assedio nella serata del 27, ma che il re avrebbe respinto la proposta. La voce era stata diffusa da Federzoni, che diceva di aver chiamato al telefono egli stesso Mussolini, dal ministero dell’interno, e lasciava supporre che il sovrano l’avesse voluto mettere a parte degli accadimenti romani.

Il 28 ottobre

La mattina del 28, a Milano Mussolini riceveva nella sede del Popolo d’Italia (teatralmente “protetta” da cavalli di frisia e rimpinguata di armi) una delegazione di industriali, fra i quali Camillo Olivetti, che lo urgevano a trovare un accordo con Salandra.

Nello stesso momento. a Roma, Salandra proponeva al re di dare l’incarico di formare il governo a Orlando, ma De Vecchi informò il re che l’unica persona con cui Mussolini avrebbe potuto raggiungere un’intesa sarebbe stato lo stesso Salandra. A Mussolini fu, quindi, proposto di governare a fianco di Salandra ma egli rifiutò. Qualche ora dopo, forse anche tentando una forzatura per convincere il capo dei fascisti, il Giornale d’Italia diffuse una edizione straordinaria in cui dava per raggiunto un accordo e per affidato un incarico a Salandra e Mussolini, il quale dopo aver resistito a pressioni di ogni provenienza, compresa una accorata telefonata del generale Arturo Cittadini (su espresso mandato del re), precisò telefonicamente a Grandi che ancora insisteva: «Non ho fatto quello che ho fatto per provocare la risurrezione di don Antonio Salandra».

La mattina seguente, dopo che le bozze dell’articolo scritto da Mussolini durante la notte erano state diffuse, Salandra vi poté leggere che non c’era niente da fare e, dopo un giro di telefonate di ultima conferma, decise di rimettere l’incarico. De Vecchi fu incaricato da Vittorio Emnanuele di informare Mussolini che gli avrebbe conferito l’incarico. Mussolini rispose: «Va bene, va bene, ma lo voglio nero su bianco. Appena riceverò il telegramma di Cittadini partirò in aeroplano». Poche ore dopo gli giunse un telegramma del generale Cittadini:

SUA MAESTÀ IL RE MI INCARICA DI PREGARLA DI RECARSI A ROMA DESIDERANDO CONFERIRE CON LEI
OSSEQUI
GENERALE CITTADINI

L’esito

Alle 8 di sera Mussolini partì placidamente, ma in treno, alla volta di Roma, dove sarebbe giunto alle 11.30 del 30 ottobre; il convoglio patì un incredibile ritardo dovendo rallentare, e in qualche caso proprio fermarsi, in molte stazioni prese (stavolta gioiosamente) d’assalto da fascisti festanti che accorrevano a salutare il loro Duce.

La voce secondo cui Mussolini si sia presentato al re (vi si recò in camicia nera) dicendogli «Maestà vi porto l’Italia di Vittorio Veneto», pare sia un falso storico, tuttavia Mussolini parlò per circa un’ora col re promettendogli di formare entro sera un nuovo governo con personalità non fasciste e con esponenti di aree politiche “popolari”.

Alle 18 presentò il governo, comprendente soltanto tre fascisti di orientamento moderato.

Le camicie nere (in seguito “le camicie nere della rivoluzione”) erano ancora accampate intorno alla capitale e comprensibilmente non attendevano che di entrarvi. Furono autorizzati ad entrarvi solo il giorno 30, e la raggiunsero alla meglio, su mezzi di fortuna. Ma erano più che raddoppiati, dai circa 30.000 della marcia, erano ora più di 70.000, cui si aggiunsero i simpatizzanti romani che erano già sul posto. Ci furono scontri e incidenti; nel quartiere di San Lorenzo alcuni operai accolsero con colpi d’arma da fuoco la colonna guidata da Bottai, proveniente da Tivoli, che attraversava l’area in modo relativamente pacifico. La rappresaglia fu spietata: il giorno dopo, oltre 500 Fascisti guidati da Italo Balbo attaccarono di sorpresa il quartiere e lo devastarono. I morti fra gli abitanti furono quasi dieci (tra questi, i responsabili dell’agguato), i feriti oltre duecento, molti dei quali, spesso scaraventati giù dalle finestre delle abitazioni, riportarono lesioni permanenti. Informato dell’accaduto, Mussolini diede alle forze dell’ordine immediate disposizioni per la più severa repressione di qualsiasi incidente.

Il 31 ottobre le camicie nere sfilarono per più di 6 ore dinanzi al re, poi Mussolini ordinò che si iniziassero le operazioni di sgombero.

 
Engles Profili 2010 - Pubblicazione a cura di Lykonos