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Le Foibe e la questione di Trieste PDF Stampa E-mail

Le foibe devono il loro sinistro significato all’uso che ne fecero i partigiani jugoslavi durante e dopo la II guerra mondiale. Erano fosse comuni per esecuzioni sommarie collettive, in gran parte di italiani. Talvolta le vittime venivano fucilate subito dopo l’arresto. Altre volte venivano prima smistate ai campi di prigionia, dove giacevano in condizioni disumane: frustati, bastonati, denutriti, i prigionieri venivano solitamente uccisi a coppie, legati sull’orlo della foiba e falciati con la mitragliatrice. La vicenda delle foibe ha molte ascendenze, ma certamente la più rilevante è quella che ci riporta alle origini del fascismo nella Venezia Giulia.

La violenza dell’occupazione fascista in Jugoslavia

In seguito al Trattato di Rapallo, firmato nel 1920 tra il regno d’Italia e quello dei Serbi, Croati e Sloveni, furono annesse all’Italia: Gorizia, Trieste, l’Istria e Zara (mentre Fiume fu dichiarata città libera). Negli anni successivi, il regime fascista impose in tutto il Venezia Giulia una violenta politica di nazionalizzazione. Come recita il testo definitivo dell’analisi bilaterale Italia-Slovenia dell’aprile 2001: «Nella Venezia Giulia vennero progressivamente eliminate tutte le istituzioni nazionali slovene e croate, le scuole furono italianizzate, gli insegnanti licenziati o costretti ad emigrare, vennero posti limiti all’accesso degli sloveni nei pubblici impieghi». All’eliminazione politica delle minoranze, si accompagnò da parte del regime mussoliniano un’azione che «aveva l’intento di arrivare alla bonifica etnica della Venezia Giulia, con la repressione attuata nei confronti del clero, che rappresentava un importante momento di sintesi della coscienza nazionale delle minoranze, e «l’abolizione dell’uso della lingua slovena nella liturgia e nella catechesi».

La prima conseguenza di «questo programma di distruzione integrale delle identità» fu la fuga di gran parte delle minoranze dalla Venezia Giulia: «Secondo stime jugoslave emigrarono 105 mila sloveni e croati». Ma soprattutto si consolidò, agli occhi di queste minoranze, un fortissimo sentimento anti italiano, «l’equivalenza tra Italia e fascismo» che portò «la maggioranza degli sloveni al rifiuto di quasi tutto ciò che appariva italiano». Come reazione, si radicalizzarono gli obiettivi delle organizzazioni clandestine slovene che, verso la metà degli anni Trenta, «abbandonarono le rivendicazioni di autonomia culturale nell’ambito dello Stato italiano per puntare invece al distacco dall’Italia dei territori considerati loro». Un’azione che trovò l’appoggio del Partito comunista italiano. La risposta fascista fu pesante: dopo l’occupazione dei territori jugoslavi nel ’41, il regime «fece leva sulla violenza, con deportazioni nei campi istituiti in Italia (Arbe, Gonars, Renicci), il sequestro di beni e l’incendio di case».

Le prime foibe: autunno del ‘43

L’8 settembre ’43 e il successivo ritiro dei tedeschi dalla Venezia Giulia aprirono un’altra stagione di terrore. Il movimento partigiano di Tito scatenò «un’ondata di violenza nella zona di Trieste, nel Goriziano e nel Capodistriano», che portò «all’arresto di molte migliaia di persone, in larga maggioranza italiani, bollati come “nemici del popolo”, ma anche sloveni contrari al progetto politico comunista jugoslavo»; a centinaia di esecuzioni sommarie immediate nelle foibe; a deportazioni nelle carceri e nei campi di prigionia (tra i quali va ricordato quello di Borovnica)». Il numero delle vittime non è quantificabile con precisione. Comunque dovrebbero essere un migliaio tra infoibati, caduti nelle zone costiere e dispersi in mare.

Le foibe di aprile-giugno ‘45

Le foibe, però, ebbero la loro massima intensità nei quaranta giorni dell’occupazione jugoslava di Trieste, Gorizia e dell’Istria, dall’aprile fino a metà giugno ‘45, quando gli Alleati rientrarono a Trieste occupata dalle milizie di Tito. Tra marzo e aprile, alleati e jugoslavi si impegnarono nella corsa per arrivare primi a Trieste. Vinse la IV armata di Tito che entrò in città il 1º maggio alle 9.30. Suppergiù nelle stesse ore i titini occupavano anche Gorizia. Dei partigiani garibaldini non c’era traccia. Erano stati dirottati verso Lubiana e gli fu permesso di rientrare nella Venezia Giulia soltanto venti giorni dopo. A cose fatte. Come scrive Gianni Oliva, gli ordini di Tito e del suo ministro degli esteri Kardelj non si prestavano a equivoci: «Epurare subito», «Punire con severità tutti i fomentatori dello sciovinismo e dell’odio nazionale». Era il preludio alla carneficina, che non risparmiò nemmeno gli antifascisti di chiara fede italiana, nemmeno membri del Comitato di liberazione nazionale.

Ci fu una vera e propria caccia all’italiano, con esecuzioni sommarie, deportazioni, infoibamenti. In quel periodo solo a Trieste  furono deportate circa ottomila persone: solo una parte di esse potrà poi far ritorno a casa. I crimini ebbero per vittime militari e civili italiani, ma anche civili sloveni e croati, vittime di arresti, processi farsa, deportazioni, torture, fucilazioni, e si protrassero per alcune settimane, sebbene a Trieste e a Gorizia fra il 2 e il 3 maggio fosse arrivata anche la seconda divisione neozelandese del generale Bernard Freyberg, inquadrata nell’VIII armata britannica. Finì il 9 giugno quando Tito e il generale Alexander tracciarono la linea di demarcazione Morgan, che prevedeva due zone di occupazione – la A e la B – dei territori goriziano e triestino, confermate dal Memorandum di Londra del 1954. È la linea che ancora oggi definisce il confine orientale dell’Italia. La persecuzione degli italiani, però, durò almeno fino al ‘47, soprattutto nella parte dell’Istria più vicina al confine e sottoposta all’amministrazione provvisoria jugoslava.

Le cifre

Quante furono le vittime? Secondo alcuni: 20-30 mila. Ma un’indagine minuziosa del Centro studi adriatici raccolta in un albo pubblicato nel 1989 le fa scendere a 10.137 persone: 994 infoibate, 326 accertate ma non recuperate dalle profondità carsiche, 5.643 vittime presunte sulla base di segnalazioni locali o altre fonti, 3.174 morte nei campi di concentramento jugoslavi. Non solo fascisti: erano presi di mira tutti coloro che si opponevano al disegno dell’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia, compresi molti antifascisti, membri del Cln che avevano fatto la Resistenza al fianco dei loro assassini. La repressione, infatti, si esercitò, perfino con maggiore precisione, nei confronti di antifascisti, i componenti dei Comitati di Liberazione Nazionale di Trieste e di Gorizia, e gli esponenti della Resistenza liberaldemocratica e del movimento autonomistico di Fiume. Dunque, infoibati perché italiani. Lo sostiene anche lo storico Giovanni Berardelli: “La loro principale colpa era quella di essere, per la loro nazionalità, un ostacolo da rimuovere al programma di Tito di annessione della Venezia Giulia”. Da cui l’odierna accusa di genocidio o di pulizia etnica.

“Le foibe – sintetizza lo storico triestino Roberto Spazzali – furono il prodotto di odii diversi: etnico, nazionale e ideologico. Furono la risoluzione brutale di un tentativo rivoluzionario di annessione territoriale. Chi non ci stava, veniva eliminato”.

Le radici delle foibe

La commissione italo-slovena, nella sua relazione dell’aprile 2001, ha cercato di analizzare il contesto storico che portò a queste efferatezze: «Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e appaiono essere il frutto di un progetto politico preordinato in cui confluivano diverse spinte: l’eliminazione di soggetti legati al fascismo e l’epurazione preventiva di oppositori reali». Il tutto nasceva «da un movimento rivoluzionario (quello titino, n.d.r. ) che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l’animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani».

Insomma, come ha scritto lo storico Enzo Collotti, “fino a quando si continuerà a voler parlare della Venezia Giulia, di una regione italiana, senza accettarne la realtà di un territorio abitato da diversi gruppi nazionali e trasformato in area di conflitto interetnico dai vincitori del 1918, incapaci di affrontare i problemi posti dalla compresenza di gruppi nazionali diversi, si continuerà a perpetuare la menzogna dell’italianità offesa e a occultare (e non solo a rimuovere) la realtà dell’italianità sopraffattrice (…) Ma che cosa sa tuttora la maggioranza degli italiani sulla politica di sopraffazione del fascismo contro le minoranze slovena e croata (senza parlare dei sudtirolesi o dei francofoni della Valle d’Aosta) addirittura da prima dell’avvento al potere; della brutale snazionalizzazione (proibizione della propria lingua, chiusura di scuole e amministrazioni locali, boicottaggio del culto, imposizione di cognomi italianizzati, toponimi cambiati) come parte di un progetto di distruzione dell’identità nazionale e culturale delle minoranze e della distruzione della loro memoria storica? (…) Che cosa sanno dell’occupazione e dello smembramento della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al regno d’Italia, con il seguito di rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediati nel Litorale adriatico, sullo sfondo della Risiera di S. Sabba e degli impiccati di via Ghega? Ecco che cosa significa parlare delle foibe: chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell’arco di un ventennio con l’esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari, sociali concentratesi in particolare nei cinque anni della fase più acuta della seconda guerra mondiale. È qui che nascono le radici dell’odio, delle foibe, dell’esodo dall’Istria”.

I motivi del silenzio sulle foibe

Secondo Gianni Oliva, alcuni fattori politici hanno contribuito a confinare per mezzo secolo il ricordo delle foibe nelle commemorazioni locali: la rottura tra Tito e Stalin avvenuta nel 1948, il fatto che militari fascisti commisero in Jugoslavia reati di guerra per i quali non furono mai perseguiti, la subordinazione politica dell’ex Pci alle esigenze del comunismo internazionale e alle spinte nazionaliste di Tito. Sta di fatto che col passare del tempo si è finito per voltare pagina e, negli ultimi anni, anche su iniziativa degli ex comunisti, si è fatta luce su questi episodi.

 

 
Engles Profili 2010 - Pubblicazione a cura di Lykonos